Giornata del Ricordo, Fertilio: “Ancora tanto lavoro da fare per la memoria delle vittime”

10 Febbraio 2025 03:16

Il occasione della Giornata del Ricordo  – la commemorazione civile nazionale italiana, che si celebra il 10 febbraio di ogni anno e che ricorda i massacri delle foibe e l’esodo giuliano dalmata – pubblichiamo l’intervento di Dario Fertilio, giornalista e scrittore italiano di origine dalmata. Autore di diversi saggi e monografie, sia su temi politici che sull’informazione, afferma la necessità di ricercare e difendere le libertà individuali.

di Dario Fertilio

“Che cos’è un genocidio? Secondo la formula dell’Onu, è la soppressione intenzionale di un gruppo nazionale, etnico o religioso. La legge francese aggiunge: o di una classe sociale. Messa in questi termini, la pulizia etnica commessa dai partigiani comunisti di Tito negli anni Quaranta ai danni degli italiani di Istria, Fiume, Quarnero e Dalmazia, con 15-30 mila vittime, e con l’esodo successivo di 250.000-350.000 persone, può anche essere chiamata genocidio. La ricorrenza del Giorno del Ricordo, il 10 febbraio (in coincidenza con la firma del Trattato di Parigi) si colloca dunque nella stessa, tragica dimensione morale dell’Olocausto ebraico, attuato dai nazisti, o dello Holodomor ucraino, voluto da Stalin negli anni trenta. Il numero delle vittime in Jugoslavia, certo, non è paragonabile a quelli degli altri due eventi, ma la brutalità della soppressione nelle foibe (vittime legate tra loro a fatte precipitare così, ancora vive, in profondi imbuti carsici dove agonizzavano a lungo) non fu un evento meno crudele degli altri. Aggravato dal fatto che le persone assassinate avevano, agli occhi dei loro nemici, una colpa esclusivamente simbolica; appartenevano cioè ad una cultura italiana giudicata non assimilabile a quella jugoslava, compromessa col fascismo e politicamente infida, etnicamente irrecuperabile per discendenza antropologica.

Ma, al di là delle definizioni e della portata morale da attribuire ai singoli, tragici eventi, nel caso della Jugoslavia le radici dell’odio risalivano a prima della seconda guerra mondiale, e affondavano nella mitologia nazionalistica serba, teorizzata fin dagli anni trenta e iniettata in seguito nel regime totalitario comunista jugoslavo. Eroi serbi guerrieri e semileggendari, come il principe Lazar o Marko Kraljevic; intellettuali come Vaso Cubrilovic, teorizzatore della pulizia etnica; politici come Edvard Kardelj, ministro degli esteri di Tito o Josip Smodlaka, sindaco di Spalato nel dopoguerra; e naturalmente, soprattutto, come il dittatore Josip Broz Tito, tutti costoro hanno contribuito a edificare un mostro ideologico genocida e sopraffattore.

Le efferatezze di quegli anni, commesse anche ai danni di sloveni, croati e degli stessi serbi non comunisti, vanno dunque inquadrate in quella ideologia nazicomunista che sarebbe esplosa di nuovo, nel corso della guerra 91′-’95, e che portò alla dissoluzione della Jugoslavia. Essa rivive oggi, a non molti chilometri di distanza, nelle azioni delittuose commesse dalla Russia di Putin in Ucraina.
Nel caso della Jugoslavia, inoltre, non si trattò soltanto di vendette personali, rappresaglie politiche e militari, e odio per la lingua e cultura italiane, ma di un progetto “scientifico” messo in atto secondo una prassi totalitaria che annientava preventivamente tutti i possibili critici e dissidenti, in vista dello stabilirsi di un nuovo regime comunista.

Il silenzio che seguì in Italia fu dovuto a varie cause: rimozione della sconfitta, censura e boicottaggio del Partito Comunista che voleva accreditarsi come patriottico, pressioni internazionali legate al ruolo “eretico” assunto da Tito nei confronti di Stalin, e impreparazione culturale ad affrontare l’ideologia nazicomunista di Tito. Oggi è tempo di metterla in luce, e, oltre ad onorare la memoria delle vittime e degli esuli, di chiedere con forza i riconoscimenti e le riparazioni dovute. Dall’Italia, con una legge di interesse permanente per esuli e rimasti e con una legge sull’equo e definitivo indennizzo per chi ha perduto i suoi beni. Dagli Stati eredi della Jugoslavia, con lo sblocco dei “soldi di Osimo” di cui quel regime è ancora debitore. E, in particolare, e dalla Croazia, con l’attuazione dell’accordo Dini-Granić sulla toponomastica in lingua italiana, nelle città e regioni dove la cultura italiana è autoctona e ambientale. Al di là delle commemorazioni, quindi, il lavoro da fare per onorare la memoria delle vittime è ancora vasto”.

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